[76] Babelo, la turo
Fondando
il
futuro del suo sogno sul mito potente della Torre di Babele, archetipo
radicato
nella natura più profonda e intima dell’uomo, Zamenhof così legge nel
suo primo
discorso:
Nella più
remota antichità, che già da lungo tempo è
svanita dalla memoria degli uomini e di cui nessuna storia conserva il
benché
minimo documento, la famiglia umana si frantumò e i suoi membri
cessarono di
comprendersi fra di loro. Fratelli creati tutti secondo la stessa
immagine,
fratelli che tutti avevano uguali idee e uguale Dio nei loro cuori,
fratelli
che dovevano aiutarsi l’uno con l’altro e lavorare concordemente per la
felicità e la gloria della loro famiglia – quei fratelli diventarono
del tutto
estranei fra di loro, si dispersero, forse per sempre, in gruppetti
nemici e
tra di loro cominciò un’eterna guerra. Nel corso di molti millenni, nel
corso
di tutto il tempo che la storia umana ricorda, quei fratelli non han
fatto che
combattersi, e nessuna comprensione era affatto possibile fra loro.
Profeti e poeti
sognavano di un felice, nebuloso, lontanissimo tempo futuro, in cui gli
uomini
avrebbero ripreso a comprendersi e di nuovo si sarebbero riuniti in una
sola
famiglia; ma si trattava solo di un sogno. Si parlava di ciò come di
una dolce
fantasia, che nessuno prendeva sul serio, cui nessuno credeva.
è
un tributo al mito e insieme alla sua ebraicità, riguardo cui
proponiamo di sèguito
l’introduzione alla traduzione italiana della conversazione di Roman
Dobrzyński
con Louis Christophe Zaleski-Zamenhof,
Via Zamenhof, creatore dell’esperanto,
Giuntina Editrice, Firenze 2009, bella autobiografia del nipote del
creatore
dell’Esperanto.
Se
impossibile risulta sintetizzare in poche pagine la storia dei rapporti
e delle connessioni fra movimento esperantista, in particolare nella
sua prima
fase (quella che i parlanti chiamano praesperantismo), ed
Ebraismo (per una visione diacronica schematica si rimanda alla scheda 115),
molto agevola la dichiarazione di consapevolezza del creatore della lingvo
internacia riportata nell’intervista che rilasciò a Isidore Harris
per il Jewish
Chronicle del 16 settembre 1907:
Se non fossi un
ebreo del ghetto, l’idea di unire
oppure no l’umanità non mi avrebbe sfiorato, o almeno non mi avrebbe
così
costantemente ossessionato durante tutta la mia vita. Nessuno può
risentire
quanto un ebreo del ghetto della maledizione delle divisione fra gli
uomini.
Nessuno può sentire la necessità di una lingua umanamente neutrale e
non-nazionale quanto un ebreo, che è obbligato a pregare Dio in una
lingua morta
da molto tempo, che riceve la sua educazione e la sua istruzione da un
popolo
che lo rifiuta, e che ha compagni di sofferenza su tutta la terra, con
i quali
non si può capire.
Lejser
Zamenhof, nato da Mordechai, nipote di Fajvel, è figlio del suo
tempo, in una piccola Bialystok
che vedeva, da un censimento del 1895, il 76%
della popolazione appartenente al popolo ebraico (in una Russia
dove, al
1879, vivevano più di 5 milioni di ebrei):
ebreo inquieto, strattonato fra il sogno illuminista di una
assimilazione (che
si farà, nel suo caso, tentativo di globalizzazione ante litteram)
e al
contempo quasi profeta di quel secolo breve che, di lì a poco, avrebbe
infranto
quella speranza di rinnovamento e di futuro per il popolo ebraico, in
primis,
e per l’intero mondo civile.
Zamenhof
sentì profondamente il problema ebraico. Così bene
sintetizza tale partecipazione Federico Gobbo (“La filosofia morale di
Ludwik
Lejzer Zamenhof per il nuovo millennio”, URL: http://erewhon.ticonuno.it/primavera2005/zamenhof.htm):
Ma
cos’è l’ebraismo? Perché gli ebrei soffrono da millenni? Erano queste
le
domande che percorrevano gli intellettuali askenaziti dopo i pogrom in
Ucraina
del 1881. In
particolare, all’interno del circolo Chibat Zion, le risposte
furono
molto diverse. Akh ad-Haam, scrittore dell’epoca, vedeva l’essenza
dell’ebraicità nella ‘morale nazionale’, che esiste anche fuori dalla
religione; David Neumark rispose: ‘nel monoteismo’; Shimon Bernfeld
disse:
‘nella morale nazionale’; Berdichevski e Shaj Ish Hurvich, negarono
l’esistenza
di una qualsiasi essenza. Zamenhof non rispose che molto dopo, nel 1905, in una
lettera
all’amico Javal: “La vera essenza del popolo ebraico è l’idea
religiosa di un solo Dio non pensato a fondo per l’intera umanità. Per
questa
idea Mosè creò il popolo ebraico, per questa gli ebrei hanno sofferto
nel corso
dei millenni, per questa vivono in eterno, nonostante tutti gli altri
popoli
contemporanei a loro sono morti. La perfezione di questa idea di
conseguenza è
la missione del tutto naturale degli ebrei e la loro raison
d’être.
La risposta di Zamenhof è dunque
simile a quella di David Neumark: il monoteismo. E nel Talmud Zamenhof
individua in Hillel
l’essenza piú vera del monoteismo (Shabbat 31a).
Il
suo rapporto
con il movimento sionista è contrastato. Nel 1881, al suo ritorno a
Varsavia
dopo la specializzazione in oftalmologia a Mosca, vi è fortemente
legato:
collabora con la rivista ebraica Russkij
Jevrej e fonda il primo circolo sionista della città, Chibat
Zion;
in Razsvet del 22 gennaio 1882, sotto
lo pseudonimo Gamzefon, a ridosso delle infami “leggi dimaggio” a nome
di
Nicholas Pavlovich Ignatiev, si domanda Chto zhe nakonetz delat?
(“Che
fare dunque?”); nel 1884, l’entusiasmo sionista inizia a raffreddarsi:
nel
1895-96 comincia a sviluppare - dopo l’idea di un lingua universale -
quella di
una ponto-religio, fino al 1897, quando rifiuta di prendere
parte al
movimento di Herzl (il sionismo appunto), così dichiarando, nella
lettera
all’amico Michaux del 21 febbraio 1905:
Dopo
3-4 anni di energico impegno sionista sono giunto alla convinzione che
questa
idea non porterà a nessun risultato e dunque l’ho rigettata, benché nel
cuore
mi sia rimasta per sempre cara; quando nel 1897 è nato il grande
movimento
sionista per mano di Herzl, già non potevo più farne parte.
Resta da allora in
silenzio per
parecchi anni, finché il 19 gennaio 1901 (ancora una volta si cela
sotto uno
pseudonimo, Homo sum) pubblica a Varsavia un libretto in russo
con il
titolo Gillelizm. Proekt rešenija
evrejskogo voprosa (“Hilelismo. Progetto per la soluzione della
questione
ebraica”), scritto già nel 1897 come pubblicazione privata agli amici,
‘a un
piccolo numero di ebrei intelligenti’, per usare le parole dell’Autore.
Di un
testo che, solo, meriterebbe un’intera pubblicazione, riportiamo l’incipit, sintomatico del sentire di
Zamenhof nel momento della stesura:
Lettori ebrei!
Nel nome del futuro di una folla di dieci milioni di nostri fratelli,
scacciati
e disprezzati dappertutto, che soffrono già da così tanti secoli e che
sembrano
condannati ancora a ulteriori sofferenze senza che si possa prevedere
una fine,
ci permettiamo di rivolgerci a voi con una proposta per la quale
chiediamo la
vostra attenzione. Ma vi facciamo notare che udrete da noi parole
nuove, alle
quali il vostro orecchio ancora non è abituato. […] I sionisti al primo
minuto,
forse, chiuderanno le orecchie alle nostre parole, ritenendo che non
siamo
ancora abbastanza maturati nel patriottismo ebraico per comprendere
l’intero
significato del sionismo; pertanto dobbiamo sottolineare che noi stessi
eravamo
una volta tra i sionisti più accesi, e lo eravamo già al tempo in cui
la
maggioranza dei sionisti di adesso erano ancora fuori del movimento; e
abbiamo
rinunciato a quest’idea non per troppo poco amore, ma solo per
incontestabili
prove della ragione che ci hanno definitivamente convinti che il
sionismo è
soltanto un frutto attraente di una non sufficiente comprensione
dell’essenza del
problema ebraico […].
In questo contesto
nasce il sogno
(meglio, la speranza) esperantista: prima appunto come soluzione al
problema
ebraico, poi come dono per il mondo. L’idea di contribuire al benessere
dell’umanità con una lingua comune, foriera di una cultura comune a
fondamento
di una rinnovata pace universale, è profondamente noachide (cf. http://www.benenoach.info).
Nel 1906, nel
numero di febbraio della Ruslanda
Esperantisto, Zamenhof
propone di cambiare il nome di Hilelismo
in quello di Homaranismo,
abbandonando così lo hilelismo
come ‘questione ebraica’; fino al pieno distacco, quando nel 1914
risponde
negativamente all’invito di partecipare alla fondazione della Tutmonda
Ligo
de la
Judaj Esperantistoj:
Devo
io stesso purtroppo
mettermi da parte rispetto a questa questione perché, secondo le mie
convinzioni, io sono un ‘homarano’, e non posso legarmi con i fini e
gli ideali
di una gens
particolare o di una religione. Sono profondamente convinto che ogni
nazionalismo presenta per l’umanità solo la massima infelicità, e che
il fine
di ogni uomo dovrebbe essere: creare un’umanità in armonia. È vero che
il
nazionalismo delle genti oppresse – come reazione di autodifesa
naturale – è
molto piú perdonabile rispetto al nazionalismo delle genti che
opprimono, ma,
se il nazionalismo dei forti è ignobile, il nazionalismo dei deboli è
imprudente: entrambi nascono e si sostengono l’un l’altro e causano un
circolo
vizioso di infelicità da cui l’umanità non potrà mai uscire, se
ciascuno di noi
non offra l’amore che ha per il proprio gruppo e non faticherà a farlo
stare in
piedi su un terreno totalmente neutrale.
La paura di
recar danno al suo
sogno a causa dell’antisemitismo sempre più strisciante lo porterà al
profondo
dramma interiore che così esprime nella lettera scritta nel 1905 a Michaux, in
preparazione del 1° congresso di esperanto a Boulogne-sur-Mer:
[…]
sono ebreo
e tutti i miei ideali, la loro nascita, maturazione e ostinazione,
tutta la storia
delle mie continue battaglie interne ed esterne - tutto ciò è
indissolubilmente
legato a questo mio essere ebreo. Non nascondo mai il mio essere ebreo
e tutti
gli esperantisti lo sanno; e io con fierezza mi ascrivo a questo popolo
così
antico, che così tanto ha sofferto e combattuto, la cui intera missione
storica
consiste, secondo me, nell’unire le nazioni nella tendenza verso “un
solo dio”,
cioè una sola serie di ideali per tutta l’umanità. Ma oggi in un tempo
di
sciovinismi nazionali e di un antisemitismo molto diffuso, fare del mio
essere
ebreo un tema per un discorso pubblico sarebbe inopportuno […] e
parlare in
dettaglio della mia vita e della storia delle mie idee senza una
ripetizione
continua del mio essere ebreo sarebbe quasi impossibile. Se non fossi
un ebreo
del ghetto l’idea di unire l’umanità o non mi sarebbe neanche venuta in
mente,
o comunque non mi avrebbe posseduto così ostinatamente durante tutta la
mia
vita. L’infelicità della divisione tra gli uomini nessuno la può
sentire così
forte quanto un ebreo del ghetto. La necessità di una lingua non
nazionale e su
un piede di parità tra gli uomini nessuno la può sentire così tanto
quanto un
ebreo, che è obbligato a pregare dio in una lingua morta da tanto
tempo, che
riceve la sua educazione e la sua istruzione nella lingua di un popolo
che lo
respinge, che ha compagni di sofferenza in tutto il mondo e non si può
capire
con loro. […] il mio essere ebreo è stato il motivo principale per cui
io fin
dalla più tenera infanzia mi sono dedicato tutto ad una sola idea e a
un solo
sogno - al sogno dell’unione dell’umanità.
Drammatica
consapevolezza che,
condivisa dall’intero movimento delle origini, risuona nella seguente
considerazione di Louis Émile Javal (oftalmologo francese, amico di
Zamenhof,
che a proposito dell’esperanto sottolineava l’importanza di impararlo
da parte
dei non vedenti)
in un lettera del successivo 15 ottobre:
Ho
letto più di 700 articoli relativi all’esperanto,
apparsi dopo Boulogne. Uno solo afferma che il D(okto)ro Zamenhof è
ebreo.
Abbiamo avuto bisogno di una disciplina ammirevole per nascondere al
pubblico
la tua origine.
Tre anni fa, 150 anni
dalla nascita, la città di Zamenhof
lo ha celebrato ospitando il Congresso
Universale, e a parlare è stato, fra gli altri, il nipote, Louis C.
Zaleski-Zamenhof: mi-dor le-dor, “di generazione in
generazione”, come nello spirito ebraico antico, mantenendo viva e
vivificando
la storia, in quella šelšèlet che ha
fatto anche
dell’ebraismo – come dirà in altra forma di Zamenhof Vitaliano Lamberti (Una voce per il mondo. Lejzer
Zamenhof il creatore dell’esperanto, Mursia, 1991) – “una
voce per
il mondo”. Così si è espresso Louis Christophe relativamente
all’inagurazione,
il 15 dicembre 2008, dell’anno dedicato dall’UNESCO al nonno:
L’anno
di Zamenhof è il centocinquantennale della nascita di mio nonno,
Ludovico Lazzaro.
Insisto sulla parola ‘nascita’ nel senso di ‘vita’. Ché infatti ciò
significa
che Egli è ancora vivo, almeno virtualmente, vivo nei nostri cuori,
grazie ai
Suoi ideali, costantemente attuali. Così l’ideale di tolleranza,
rispetto
dell’altro, del diverso, che sia per colore della pelle, per religione,
per cultura
e lingua che la esprime. Egli era ben conscio di quanto nella
diversità, la
molteplicità delle diverse culture consista la grande ricchezza
dell’umanità,
ricchezza che deve essere preservata a costo di ogni rischio. Ma Egli
ben anche
era conscio del fatto che, per evitare che da tale diversità nasca
inimicizia è
necessario fornire alle diverse società uno strumento di possibile
comunicazione: una lingua neutrale, la seconda lingua per tutti, una
lingua che
non punti a sostituirsi alle lingue materne. […] Alla fine cos’è il
Doktoro
Esperanto: polacco, lituano, russo, o ancora ebreo? Del resto in Spagna
porta
la medaglia di Isabella la Cattolica, in Francia è Cavaliere della
Legion d’Onore, e
molti monumenti innalzati alla Sua memoria, strade e piazze disseminate
fra
decine di paesi del mondo portano il Suo nome. Lui stesso diede la
risposta:
Egli è uno homarano,
ossia un appartenente
all’umanità intera. Che gioisce al vedere cadere i muri millenari fra i
popoli
divisi, abbattimento che ha cantato nelle sue poesie profetiche.
Gioisce al
vedere i popoli, prima nemici, contribuire a formare un grande rondo familia
(“cerchio familiare”) in
tutta l’Europa e presto in tutto il mondo. Ora a questa famiglia umana
manca
solo uno strumento neutrale di comunicazione, rispettoso delle lingue
nazionali
che sono il veicolo delle diverse ricchezze culturali: manca una lingvo internacia che non miri a
sostituirsi loro. Speriamo in un tanto più rapido superamento di tale
vuoto.
Speriamo: la speranza è
infatti il simbolo del nostro Esperanto.
Un
sogno, forse,
un’utopia. O solo un bisogno. Piace però pensare che non a caso il
movimento
universalizzò il soprannome del creatore per designare la lingua
stessa, e non
a caso l’inno che dal 1905
risuona a ogni incontro esperantista titola La Espero,
la speranza, ha-tikvah. Spes
ultima dea,
in un mondo che – da allora – non sembra avere poi fatto tanti passi in
avanti.
Altra lettura
sul tema,
interessante e fruibile via rete, è lo studio di
Carlo Minnaja, “Ebraismo ed Esperanto nell’Europa dell’Est”.
E ancora
imprescindibile è,
almeno, lo studio di G. Silfer, Se mi ne estus hebreo … Una ricerca
sulle
origini dell’Esperanto, Centro italiano di interlinguistica, Milano
1986.
“L’uomo che ha
sconfitto
Babele” è il significativo titolo di un libro di R. Centassi e H.
Masson,
L’Harmattan 2002 (cf. http://www.nodo50.org/esperanto/artik88.htm
e immagine di apertura scheda).
Tanti detti legati alla tradizione
ebraica trovano
spazio in versione esperanto, come ad esempio Al
du sinjoroj samtempe oni
servi ne povas [24] “Non si può essere servi
al contempo di due padroni”, come aveva detto anche Gesù (Luca 16, 13;
Matteo
6, 24).