[80] André Martinet

 

Fra i più importanti linguisti contemporanei (1908-1999), fu fra l’altro anche direttore della IALA, l’Associazione Internazionale per la Lingua Ausiliaria (che aveva lo scopo di studiare scientificamente il problema della lingua internazionale), che abbandonò prima che questa elaborasse il progetto Interlingua [> 107; 117].

Invece di un profilo più tadizionale del grande strutturalista francese, allievo di Otto Jespersen e Antoine Meillet, che può esser recuperato in molto testi, oltre che sulla Rete (e.g. http://it.wikipedia.org/wiki/André_Martinet) si preferisce riprodurre una intervista che il maestro concesse, il 17 novembre 1987, a François Lo Jacomo, suo allievo, e a Detlev Blanke, già allora uno dei più promettenti interlinguisti viventi, autore, fra la vastissima bibliografia, del caposaldo Internationale Plansprachen, Akademie-Verlag, Berlin 1985.

L’intervista ha avuto luogo il 17 novembre 1987 nella casa allora occupata da André Martinet a Sceaux, in Francia. La traduzione italiana è stata fatta sulla base del testo originale francese e di quello esperanto pubblicato col titolo “Pri kelkaj problemoj de interlingvistiko: Intervjuo kun la franca lingvisto André Martinet” come Esperanto-Dokumento 31E dall’Universala Esperanto-Asocio (Rotterdam 1993); vd. http://disvastigo.esperanto.it/index.php/ approfondimenti-mainmenu-70/72-a045-intervista-ad-andre-martinet.


D. Professor Martinet, il 1987, centenario dell'Esperanto, è anche il cinquantesimo anniversario della discussione della Sua tesi di dottorato. Lei ha dato un importante contributo al riconoscimento della linguistica come materia di studio a pieno titolo nelle università francesi, e la Sua fama non si limita alla Francia, dal momento che Lei ha insegnato negli USA e che i Suoi lavori, soprattutto gli Elementi di Linguistica Generale (1960), sono stati tradotti in circa quindici lingue e vengono usati in tutto il mondo per iniziare i futuri linguisti.

I metodi strutturali della descrizione fonologica insegnati dal Circolo di Praga sono serviti da punto di partenza del Suo approccio “funzionalista” ai fatti linguistici: difensore di una “linguistica delle lingue”, Lei si proibisce di ridurre la realtà linguistica ad un modello teorico a priori, tentando invece di trarre da tale realtà tutti i tratti veramente pertinenti dell'atto linguistico.

Sin dall'infanzia, Lei è stato sensibile alla questione della lingua internazionale ausiliaria, alla quale ha apportato diversi contributi, guidando anche, dopo la Seconda guerra mondiale, il lavoro della IALA [L' International Auxiliary Language Association ” (1924-1953) aveva lo scopo di studiare scientificamente il problema della lingua internazionale, n.d.r.], con lo scopo di creare un idioma che rispondesse meglio dell'Esperanto ai bisogni della comunicazione internazionale. Ma nel 1949 Lei abbandonò quell'associazione, ritenendo che non disponesse della capacità finanziaria di cui necessita la promozione di un tale progetto.

Come membro del Comitato d'Onore del Centenario dell'Esperanto, il 16 dicembre 1986 Lei tenne un discorso nella sede dell'UNESCO, col quale precisava la Sua esperienza e la Sua opinione sulla Lingua Internazionale [in Revue française d'espéranto 5/1988 (379), p. 62-64] . Per rispondere più approfonditamente alla curiosità di molti esperantisti, ci permetta di rivolgerle alcune domande supplementari sull'argomento.

I Suoi primi contatti con l'Ido, versione deviante dell'Esperanto, e più in generale l'interessamento per il problema di una lingua internazionale ausiliaria, hanno influenzato la Sua carriera di linguista? Si può dire cioè che l'interesse per l'Esperanto e quello per le lingue naturali sono in qualche modo legati? Se sì, come spiega questo legame?


R. Senza dubbio il mio contatto con l'Ido, peraltro piuttosto superficiale, è stato molto importante per la mia riflessione linguistica successiva, poiché ha permesso una mia presa di coscienza del fatto che non sono le complicazioni morfologiche a fare la ricchezza di una lingua. Il francese non perderebbe nulla se, anziché je vais, tu vas, nous allons, nous irons , si dicesse: j'alle, tu alles, nous allons, nous allerons ; sarebbe più semplice per tutti. Quindi il contatto con una lingua come l'Ido mi convinse subito che esiste qualcosa di essenziale nella lingua: la sua struttura , fonologica o grammaticale non importa, e che tutte queste complicazioni morfologiche, imposte dalla tradizione, sono inutili e rendono solamente più difficile la comunicazione fra i fruitori della lingua.


D. Cosa pensa della situazione attuale e delle tendenze nell'evoluzione della comunicazione linguistica internazionale? Le lingue egemoni esistenti si manterranno o tutto cambierà?


R. Oggigiorno si vede chiaramente in che direzione può andare il cambiamento. È evidente che al momento l'inglese ha il vento in poppa, e finché la situazione mondiale sarà quella di oggi ritengo che l'inglese resterà la lingua a cui la gente pensa subito progettando di avere contatti internazionali.


D. E cosa pensa del bilinguismo anglo-spagnolo che sta sorgendo negli Stati Uniti?


R. Il caso dello spagnolo negli USA è molto interessante, perché è sintomatico di quel che sono gli Stati Uniti: un Paese in cui l'imperialismo linguistico è una realtà, un'evidenza, e non un punto di vista. Gli americani non si rendono conto di essere linguisticamente imperialisti: semplicemente credono, con ingenuità, che il mondo si esprima in inglese. Ma nel momento in cui scoprono l'esistenza di altri mezzi d'espressione, quelli che incontrano quotidianamente, sono pronti a riconsiderare il problema.

Quando arrivai a New York, nessuno parlava altro che l'inglese sulla Quinta Strada, nel centro di Manhattan. Non si sentivano lingue straniere, tranne il francese ogni tanto.

Tutto questo è cambiato coi portoricani, gli unici statunitensi non volontari, che non cercano di assimilarsi il prima possibile, e che, quindi, parlano il loro spagnolo apertamente e in pubblico: nel 1971, passando tutta la primavera negli USA, trovai un'atmosfera completamente diversa da quella del 1946: lo spagnolo era diventato una delle due lingue ufficialmente accettate. Questo prova che negli Stati Uniti non esiste un vero imperialismo cosciente.


D. Il futuro delle lingue è nelle mani dei poteri politici ed economici o non è affatto controllabile? I linguisti che si interessano, ad esempio, delle lingue minacciate di estinzione, possono intervenire in qualche modo? Verranno ascoltati più facilmente degli esperantisti?


R. Il futuro di una lingua dipende soprattutto dai mezzi disponibili per difenderla. Prendiamo l'esempio del basco, che sta assumendo il ruolo di lingua di comunicazione generale. Nel settembre del 1987 ho partecipato ad un congresso a San Sebastián, dove metà degli interventi era in basco. L'idea di quel congresso, vertente su problemi linguistici ma seguito da altri dedicati a tutte le discipline scientifiche, era evidentemente dimostrare che la lingua basca può essere usata in tutte le circostanze della vita: non solo nel quotidiano, ma anche come lingua delle scienze. Ebbene, i baschi hanno un governo coi mezzi necessari a far vincere la loro ideologia.


D. A proposito: la sola università catalana in cui il catalano non si insegni è quella di Perpignano. È giusto secondo Lei cercar d'ottenerne l'insegnamento anche in quell'ateneo?


R. Ma certo, assolutamente!


D. E chi cerca di far insegnare la lingua catalana a Perpignano conduce un'azione sostanzialmente differente da chi vuole far insegnare l'Esperanto in alcune università?


R. No. Considerando che l'Esperanto è una lingua parlata e usata, anche se in pratica la usano solo persone bilingui, ritengo che essa abbia diritto alle stesse agevolazioni che avrà, ad esempio, il catalano a Perpignano. Il non-insegnamento del catalano a Perpignano è un sopruso inconsapevole delle autorità francesi nei confronti di quella lingua, e lo stesso vale per il basco nei Paesi Baschi francesi. Mi interessa, ad esempio, l'associazione Diwan in Bretagna, che prova a rivitalizzare il bretone. È un tentativo disperato ma interessante, e io sostengo Diwan, nella misura in cui posso incidere sull'evoluzione della questione.


D. Esiste, secondo Lei, un problema della comunicazione internazionale?


R. È evidente che c'è un problema. C'è un problema per tutto, quindi anche per la comunicazione internazionale, non fosse che perché resta alquanto insufficiente e imperfetta.


D. E pensa che esista una soluzione a questo problema?


R. Probabilmente voi pensate che sia l'Esperanto la soluzione, e anche se quest'idea è concepibile nella teoria, non è dimostrata dai fatti: al momento l'inglese tende ad essere la soluzione, anche se è vero che può essere solo una soluzione zoppa, nel senso che darà più potere a chi lo sa usare a scapito di chi lo padroneggia con minore abilità. Nel 1932 trascorsi un anno a Berlino e, verso la fine della mia permanenza, un'associazione di persone molto distinte mi chiese di esporre la mia opinione sulla situazione internazionale. Potevo scegliere fra il tedesco e l'inglese. A quell'epoca parlavo il tedesco con scioltezza, ma scelsi l'inglese, semplicemente perché mi dissi: “Così mi troverò allo stesso livello del mio pubblico. Per loro, come per me, l'inglese è un'altra lingua”.


D. L'inglese e l'Esperanto sono due versioni più o meno perfette “della soluzione”, o invece corrispondono a due diverse visioni del problema?


R. Il vantaggio della soluzione del tipo “Esperanto” è l'uguaglianza delle parti. Anche se una parla Esperanto molto bene e l'altra meno (ma le differenze fra “bene” e “non bene” sono meno importanti che in qualunque lingua nazionale), entrambi hanno la sensazione di essere sullo stesso piano, poiché nessuno dei due parla la propria lingua materna. Certo ciò sparirebbe nel momento in cui l'Esperanto diventasse la prima lingua di alcune persone, anche se esistono bambini con l'Esperanto come lingua materna...


D. ...anche adulti...


R. Va bene, ma si dovrebbe osservare se questa prima lingua si conserva bene. Durante la mia esperienza di linguista ho constatato la scomparsa di alcune lingue materne: in America moltissime persone col polacco come madrelingua non sanno più parlarlo all'età di dieci anni.


D. Il 1987 è anche il millenario dell'incoronazione di Ugo Capeto e, in un certo senso, il millenario della Francia. Secondo Lei, i concetti lingua , nazione e stato sono necessariamente legati? E che significato attribuisce all'espressione lingua internazionale ?


R. Sì, sono in gran parte legati. Anche nel caso eccezionale e favorevole della Svizzera, il desiderio degli svizzeri di vivere insieme malgrado la diversità linguistica è costantemente disturbato dalla disarmonia culturale. E vedete come la gente reagisce all'inglese, opponendo sistematicamente l'inglese americano a quello britannico, il che secondo me è arbitrario: per noi persone pratiche è come dire che a Marsiglia non si parla lo stesso francese di Parigi.

L'espressione “lingua internazionale” non ha senso, ed è preferibile non usarla, perché ambigua. Influenzato dalla terminologia della IALA, preferisco dire “lingua ausiliaria internazionale”. Una lingua internazionale non è altro che una lingua usata nei contatti internazionali, e può essere una qualunque: l'Esperanto, il tedesco, l'inglese, il russo; perché non il ceco? È possibilissimo che persone non di nazionalità ceca finiscano per comunicare in ceco, ritenendo che questa sia la lingua che parlano meglio oltre alle rispettive lingue materne.


D. Cosa pensa dell'idea di una lingua creata coscientemente, perché serva da strumento di una comunicazione più democratica?


R. In linea di principio sono pienamente d'accordo, e conosco l'argomentazione. Subito, al mio primo contatto con una lingua creata a tale scopo, colsi l'ideale democratico della cosa, lo scopo di mettere tutti su di un piano di uguaglianza. Ma quello stesso ideale democratico l'ho percepito prima con l'inglese: trovandomi in Germania da tredicenne con due anni di inglese scolastico alle spalle, usavo l'inglese come lingua veicolare con molti tedeschi, e sentivo in quei rapporti il vantaggio di essere nella situazione di uguaglianza di coloro che non usano la propria lingua.


D. Fra l'altro, in Belgio qualcuno ha suggerito di ricorrere all'inglese per risolvere il problema linguistico.


R. Infatti: nelle zone di lingua fiamminga, la gente preferisce usare l'inglese, anche sapendo il francese. A Zeebrugge parlavo francese con mia moglie, e i funzionari presenti che, evidentemente, sapevano il francese, si rivolgevano a noi in inglese, per principio. E ci sono sempre più belgi che non sanno il francese.


D. Ma quest'idea di usare l'inglese in Belgio ha sollevato delle proteste in Canada.


R. Per capire le reazioni dei fiamminghi nelle questioni linguistiche, i francesi dovrebbero confrontarle alle reazioni dei francofoni del Québec: il neerlandese nelle Fiandre è il francese in Québec.


D. Per venire allo scopo dell'intervista: cosa pensa dell'Esperanto, lingua centenaria? Come valuta le sue specificità linguistiche, le sue possibilità comunicative, le sue eventuali prospettive?


R. Per cominciare, ripeterò solo ciò che avete detto voi dopo Meillet: “L'Esperanto funziona” . È da sottolineare che un idista come [Siegfried] Auerbach ebbe a dichiarare in una conversazione che avemmo a Londra nel 1947: “Io, idista, penso che l'Esperanto funzioni, e non siamo sicuri che funzioni l'Ido, perché non abbiamo avuto la fortuna di farlo funzionare”. Io penso che l'Ido, che non era molto diverso dall'Esperanto, avrebbe probabilmente potuto funzionare come questo. Le differenze si sarebbero molto attenuate: dal momento che la differenza principale era una maggiore flessibilità dell'Esperanto rispetto all'Ido, questa flessibilità si sarebbe ristabilita anche in caso di vittoria della forma idista dell'Esperanto. Le possibilità comunicative dell'Esperanto sono evidenti: in ultima analisi, sono i parlanti che fanno la lingua, per cui, se l'Esperanto fosse adottato universalmente, si adatterebbe ai bisogni cui si propone di rispondere.

Invece, per quel che riguarda le prospettive, sono molto scettico. Quando io, a nome della IALA, provai a contattare i responsabili dell'UNESCO con l'idea che forse tramite loro si sarebbe potuto far progredire la cosa, mi accorsi subito che in realtà, dietro la cortesia e le gentilezze, c'era il blocco di chi paga, di chi sovvenziona l'UNESCO, in primo luogo gli USA e la Gran Bretagna. “Non si può far nulla contro la lingua di chi finanzia”. E i francesi, che consideravano internazionale anche la propria lingua, reagivano allo stesso modo. Il blocco dell'UNESCO è in realtà il blocco delle grandi lingue, e questo ostacolo spiega il mio pessimismo.


D. Per questo esiste, nel mondo esperantista, l'opposizione fra due punti di vista: tentare di convincere chi decide, come l'UNESCO, a usare la Lingua Internazionale, o provare semplicemente a far capire alla gente normale che l'Esperanto già adesso offre considerevoli vantaggi.


R. Se chi decide ha effettivamente scelto di non disturbare la potenza e la diffusione delle lingue nazionali, la politica da seguire consiste evidentemente nella diffusione della lingua fra i simpatizzanti, al fine di estenderne l'azione. Comunque sia, poiché l'Esperanto risente (salvo forse i Paesi dell'Est), dell'opposizione delle lingue nazionali, che hanno il potere, inevitabilmente sarà azionato il freno, anche se in modo non esplicito: non sarà fatta propaganda antiesperantista, basterà favorire l'inerzia.


D. Detlev Blanke viene dalla RDT, dove l'Esperanto gode di uno status relativamente privilegiato. Lei pensa che questa differenza sia di natura politica o linguistica?


R. Politica, certamente! I Paesi est-europei sono politicamente contrapposti agli Stati Uniti, cioè al Paese che rappresenta la grande forza dell'inglese. I sovietici hanno il buon senso di capire che al momento attuale è assolutamente impossibile imporre il russo a livello planetario. È quindi normale che in Europa orientale non si pensi alla diffusione dell'Esperanto come a qualcosa di contrastante con certi obiettivi. Io sono un cinico, nel senso inglese della parola, il che vuol dire che non mi nascondo la realtà. Ma se questa politica favorevole all'Esperanto avrà successo nei Paesi dell'Est, il suo risultato, secondo me auspicabile, di avvicinare oriente e occidente, favorirà il rafforzarsi delle possibilità dell'Esperanto all'Ovest o, invece, il loro indebolirsi all'Est?


D. Secondo Lei, quale dovrebbe essere la struttura di una lingua creata scientemente?


R. Questo dipende da più fattori: da quel che si vuol fare, dal pubblico a cui ci si rivolge, dal modo di lanciare la lingua. È evidente che, se la lingua è destinata a diversi miliardi di persone, per essere democratici bisogna andare più in là di quel che si è fatto finora.

L'Esperanto e le lingue che potevano essere considerate sue eventuali concorrenti sono lingue europee, nel senso culturale della parola: si è voluto prendere il comune denominatore, se non delle lingue europee, almeno del lessico culturale europeo, il che dà una priorità alle lingue neolatine o di tipo latino, dal momento che per secoli il latino è stato considerato la lingua internazionale dell'occidente. Ciò vale anche per l'Esperanto, malgrado gli sforzi del suo ideatore, che voleva, per quanto possibile, liberarsi dalle strutture europee, cioè arrivare a una lingua (isolante o agglutinante non importa) strutturalmente diversa dalle lingue indo-europee del nostro continente. Ma già l'idea che si devono sistematicamente opporre il verbo, il sostantivo, l'aggettivo etc. è una nozione europea. La situazione sarebbe molto diversa se la lingua fosse nata da un giapponese. Ma l'Esperanto, molto più dei suoi concorrenti, ha provato a staccarsi dalle strutture europee, anche se senza liberarsene veramente. Tutto ciò non è necessariamente un male, per l'importanza della cultura europea nell'unificazione del mondo di oggi. Si può dire, nel complesso, che l'Esperanto ha seguito la strada giusta.


D. Che importanza attribuisce alla struttura di una lingua nell'ottica della sua possibile diffusione?


R . La struttura di una lingua è qualcosa di fondamentale, di cui sarebbe un errore sottovalutare l'importanza e la complessità. Ad esempio, non si può concepire una lingua in cui tutte le unità dotate di significato siano, come in teoria pretende l'Esperanto, illimitatamente combinabili. L'idea di Zamenhof per cui “tutti i monemi sono uguali di diritto e automaticamente combinabili” è ingegnosa, divertente, ma si può ben immaginare che la pratica sarà diversa. Bisogna aver fiducia nel funzionamento della lingua: la struttura di un idioma pianificato non si limita alle direttive definite inizialmente, perché saranno i parlanti, alla fine, a fare la lingua.

Però bisogna sapere che la diffusione di una lingua non dipende dalle sue qualità linguistiche: dal punto di vista della diffusione il Volapük, coi suoi enormi difetti, le sue difficoltà, avrebbe potuto farcela. Come linguista credo troppo nel dinamismo, so troppo bene quanto una lingua si evolva, cambi, si modifichi e adatti ai bisogni di chi la parla per credere che siano le qualità linguistiche ad essere essenziali: essenziali sono le autorità e i poteri che stanno dietro a una lingua.

Se ci atteniamo all'aspetto puramente linguistico, è importante la prima impressione che la lingua risveglia. Poiché essa saprà adattarsi ai bisogni, la cosa principale è che non spaventi, ma anzi attiri la gente. Ovviamente, bisogna precisare quali persone deve attirare.


D. Il problema della struttura della lingua ideale o del possibile perfezionamento dell'Esperanto è ancora attuale?


R. No, e questo si aggiunge a quanto ho detto poco fa: una lingua si deve adattare. Certo, mi dispiacciono alcuni tratti dell'Esperanto, già segnalati da altri molto prima di me, come i segni diacritici, le finali in -aj, -oj etc., che non sono attraenti e allontanano la gente. La concordanza dell'aggettivo è una cosa del tutto assurda! Ci sono dei punti su cui Zamenhof, un po' inconsciamente, ha mantenuto le complicazioni tipiche di alcune lingue indo-europee in un certo momento della loro evoluzione e che, secondo me, sono incresciose: l'esempio dell'inglese ci mostra quanto si liberi una lingua abbandonando la concordanza dell'aggettivo, sulla scia dell'eliminazione delle distinzioni di genere.

Malgrado le prove che hanno portato alla nascita dell'Ido, però, gli esperantisti non hanno mai voluto riesaminare quelle inutili complicazioni. Il blocco verso l'Ido risulta da un timore: “Attenzione, se cominciamo ad accettare deviazioni, si apre la porta del caos”. Io credo che sia stato un errore, perché una lingua d'uso è aperta: la divergenza è tipica delle lingue che non vengono usate, ma non appena una lingua viene effettivamente utilizzata, si stabilisce una convergenza.


D. Pensa che l'ostilità di un individuo per l'Esperanto derivi da argomenti razionali (come la struttura linguistica) o da ostacoli psicologici contro la stessa idea della lingua universale?


R. Tale ostilità può essere solo psicologica, è una resistenza contro il carattere “artificiale” della lingua. Evidentemente questo non si riferisce ai linguisti, i quali sanno benissimo che le lingue sono altamente artificiali: le si fabbricano, io stesso ho fabbricato delle parole in francese. L'ebraico moderno, l'attuale irlandese, l'estone sono fabbricati, ma il pubblico non è necessariamente informato di questi fatti, e sente una certa ripugnanza per ciò che non è “naturale”.

A ciò si aggiunge la sensazione, forse inconscia, che le lingue artificiali potrebbero sostituire ed eliminare la madrelingua: si vede allora un attacco contro l'integrità dell'individuo, e questo è sicuramente il punto essenziale: quando si dice “inglese”, “tedesco”, “spagnolo”, si pensa “Apro le porte a qualcosa che esiste”; se si dice “Esperanto”, la gente si chiede “A cosa serve l'Esperanto?”.


D. ...il che mi ricorda l'opinione di Emmanuel Companys, per il quale oggigiorno conoscere l'inglese non apre nessuna porta, ma ignorarlo le chiude tutte.


R. È proprio vero. È evidente che, nel mondo attuale, bisogna anzitutto studiare l'inglese. Contro questo gli esperantisti non possono far nulla. Provo un senso d'impotenza contro una realtà, e la formulazione di Emmanuel Companys è molto divertente e molto esatta.


D. Lei ha detto che l'espressione “lingua artificiale” non dovrebbe scioccare i linguisti. Ma esistono linguisti per i quali il fatto che l'Esperanto sia costruito, e non espressione di una cultura millenaria, risulta scioccante?


R. Non sono linguisti, o piuttosto non sono scioccati in quanto linguisti. Da esperti informati dovrebbero sapere che l'Esperanto funziona, come ha detto chiaramente ed esplicitamente Meillet, per cui non ci dovrebbero essere obiezioni. Bisogna dire però che fra i linguisti c'è gente d'ogni tipo: anche i filologi sono linguisti, ma si trovano in un'ottica sfavorevole per giudicare il problema, perché ciò che li interessa come filologi sono proprio le complicazioni che contraddistinguono le lingue nazionali, diversamente dall'Esperanto. È naturale che provino dell'ostilità per una lingua sulla quale la filologia non ha nulla da dire.


D. Che l'Esperanto abbia avuto più successo di altri progetti di lingua universale è da attribuirsi alla sua nascita in un momento favorevole, il 1887? O al fatto che la sua struttura linguistica supera quella dei progetti concorrenti? O perché gli esperantisti pongono il problema della comunicazione internazionale in un modo che soddisfa chi è sensibile al problema? O perché esiste una certa armonia fra la struttura linguistica dell'Esperanto e la sua idea interna?


R. All'atto di nascita dell'Esperanto la congiuntura era favorevole. Senz'alcun dubbio, la sua struttura era superiore a quella del Volapük. Ma se si confronta l'Esperanto a progetti successivi quali l'Idiom Neutral, bisogna tener conto del lancio della lingua: quando quei progetti videro la luce, l'Esperanto aveva già attirato l'attenzione, aveva il vantaggio di esistere già. Il caso dell'Ido è particolare, perché si trattava in effetti di un Esperanto riformato, che conservava ciò che c'era di buono e provava ad espungere ciò che sembrava perfettibile.

Riguardo all'idea interna, infine, è evidente che l'Esperanto è stato creato da una persona particolare, in circostanze particolari, con un'idea particolare. Fu il generale plurilinguismo di Bialystok la spinta per Zamenhof a concepire così la sua lingua. Provando a guardare da dove derivano i tratti dell'Esperanto, constaterete che la -a genitivo- aggettivale è slava; l'accusativo non sarebbe stato mantenuto se la lingua fosse stata di fabbricazione occidentale, poiché per molti è una delle principali difficoltà: un occidentale si sarebbe affidato al contesto e all'ordine degli elementi. L'accusativo è una seria difficoltà per i francesi che studiano il tedesco, ed è divertente constatare che in tedesco l'accusativo si marca solo in un caso su sei, cioè al singolare maschile: non esiste né al plurale, né al singolare femminile, né al singolare neutro, e questo mostra che è del tutto inutile, perché inaffidabile.


D. Può dirci la Sua opinione sul lavoro della IALA nella sua ultima fase, quando Lei ne era il direttore linguistico?


R. Penso che quella storia sia ben riassunta nel libro di Detlev Blanke [Internationale Plansprachen, Akademie-Verlag, Berlin 1985]. Diciamo più precisamente che, quando arrivai alla IALA, c'era un gruppo abbastanza ampio diretto da[l romanista Alexander] Gode[, direttore linguistico della IALA dal 1943 al 1946 e dal 1948 al 1953, considerato l'autore dell'Interlingua, pubblicata nel 1951], e formato da linguisti tedeschi, il cui principio era che l'estrazione di una lingua ausiliaria avrebbe condotto all'elaborazione di una lingua neolatina, un pan-romanzo del Quinto secolo. Per dare un carattere scientifico a tale operazione, quei filologi romanisti tentavano di risalire il passato fino al momento in cui si poteva ritrovare un'identica forma per italiano, spagnolo, portoghese, francese e rumeno. La loro idea consisteva nel rompere l'egemonia franco-inglese in favore delle lingue romanze meridionali, poiché chi prima di loro aveva creato lingue quali l'Occidental o il Novial si era detto con troppa naturalezza: “Se una parola esiste in francese e in inglese, è automaticamente un buon candidato”.

Quando arrivai, studiai il problema da un'angolazione un po' diversa. L'idea tradizionale dei naturalisti, nel solco di Edgar De Wahl, creatore dell'Occidental, consisteva nel combinare una struttura semplice con la massima internazionalità. Cosa fare con casi come “redigere-redazione”? Ecco i problemi centrali su cui si lavorava. In pochi sanno che, quando mi ritirai, Gode stava per fare lo stesso. Vedendo la mia partenza come una possibilità di far prevalere la propria impostazione, riconsiderò le sue dimissioni. Se me ne fossi andato due mesi dopo, probabilmente la situazione sarebbe cambiata completamente.

I motivi delle mie dimissioni sono molto chiari: mi ero interessato alla IALA credendo che la cosa fosse sostenuta da un potere finanziario, e che con una pressione molto forte, che richiedeva cospicui mezzi editoriali, si sarebbe forse potuta vincere l'indifferenza del pubblico. Dal momento in cui seppi dal figlio della signora [Alice V.] Morris[, mecenate della IALA,] che dopo la scomparsa di lei la cosa sarebbe durata al massimo un anno prima della liquidazione, e sapendo che lo stato di salute della Morris volgeva verso un'imminente fine, pensai che non valesse la pena di continuare. Il denaro che non veniva direttamente dalla signora Morris era di persone che volevano bene “alla cara Alice”: dopo la sua morte, quelle persone non avrebbero fatto più nulla.


D. Dal punto di vista linguistico, come giudica il sistema Interlingua proposto da Gode?


R. Se si dev'essere “naturalisti” preferisco un naturalismo molto naturalista, come il Latino sine flexione, con regole relativamente facili da applicare che eliminano le difficoltà morfologiche del latino. Non ha una forma molto diversa, e subito si ha una norma utilizzabile a partire dai testi esistenti. Dato che al mondo ci sono ancora dei latinisti, al momento in cui Peano la propose si trattava di una soluzione interessante.


D. Sapeva dell'ultimo congresso di Interlingua, tenutosi nell'agosto del 1987, a pochi chilometri da qui, all' École Centrale di Châtenay-Malabry?


R. No, non ne sapevo nulla. È noto che non sono molto favorevole alla cosa. Non credo che ci fosse dell'ostilità fra Gode e me, ma il suo gruppo rappresentava un'unità molto autonoma: pur essendo il “direttore”, avevo pochi collaboratori stretti.


D. Se avesse saputo del congresso e si fosse potuto liberare per quel giorno, ci sarebbe andato?


R. Mi avrebbe interessato vedere come stanno quelle persone. Fra l'altro, hanno provato ad applicare la politica di diffusione che avevo suggerito io, cioè dimostrare che la lingua è utilizzabile immediatamente per recensioni e per la divulgazione di lavori scritti. È una lingua che evidentemente si proponeva più per l'uso scritto che orale. Speravo di disporre di grandi somme per pubblicare molto nella lingua internazionale della IALA [ossia l’Interlingua]: molto ma non qualsiasi cosa, e non necessariamente letteratura. Intendevo pubblicare soprattutto articoli scientifici e poter dire a chi usa le piccole lingue, come il ceco, il rumeno etc., che saremmo stati a loro disposizione per tradurre nella lingua internazionale i testi che desideravano pubblicare.


D. Per finire enuncerò delle idee, alcune mie, altre tratte da libri che ho letto, e Le chiederò se alcune di queste idee le ispirano una reazione.

1) “Gli inventori di lingue sono, in un modo o nell'altro, e a diversi livelli di consapevolezza ed esaltazione, dei ribelli che hanno scelto come obiettivo della ribellione la tirannia della convenzione sociale imposta dal sistema lingua, che condiziona la stessa integrazione nel gruppo” [come affermato dal linguista francese Claude Hagège].


R. Siamo chiari. Come linguista, ho inventato lingue per tutta la vita. Si trattasse del sistema fonologico o della grammatica, mi sono sempre divertito a fabbricare lingue, perché questa è la mia professione e perché le strutture linguistiche mi interessano. Ma evidentemente io sono un caso a parte. Credo che gli esperantisti nascano soprattutto fra coloro che provano una qualche insoddisfazione nei confronti della situazione mondiale per com'è oggi.


D. 2) L'Esperanto attira chi ha problemi di comunicazione.


R. Non solo di comunicazione, il discorso può essere più intimo. Ci si può sentire interiormente colpiti dalla necessità di capirsi propria a tutti gli uomini. Si può avere una visione idealista delle cose che non si fonda su degli insuccessi o dei conflitti linguistici. Io penso che esista molta gente diventata esperantista senza sentire tali conflitti, e che non sente neanche un urgente bisogno di una lingua veicolare.


D. 3) Come ogni lingua, l'Esperanto si evolve perché funziona, e nemmeno le regole formulate dal suo creatore o registrate nei manuali possono impedire tale evoluzione.


R. Senza dubbio, come ha dimostrato brillantemente François Lo Jacomo [che nel 1981 ha discusso con Martinet la sua tesi di dottorato (“thèse pour le doctorat de troisième cycle”) col titolo Liberté ou autorité dans l'évolution de l'espéranto]. Ma questo è evidente. Lo sapevo anche trent'anni fa.


D. Non tutti gli esperantisti concordano su questo.


R. Sono ingenui.


D. 4) “La funzione che si potrebbe attribuire a una lingua artificiale internazionale è oggi svolta de facto dall'inglese americano” (come ancora afferma Claude Hagège in L'homme de paroles).


R. No, perché da una lingua artificiale ci si può aspettare che renda uguali gli interlocutori, e tale uguaglianza dall'inglese americano non è garantita. Però l'inglese non è un problema per me, e sono molto meno tentato di imparare e praticare una lingua come l'Esperanto perché praticamente parlo l'inglese come il francese. Inoltre, l'espressione “inglese americano” mi sembra inesatta: si tratta dell'inglese, semplicemente.


D. Ma alcuni linguisti, non necessariamente favorevoli all'Esperanto, ritengono che il ruolo internazionale sia stato assunto non dall'inglese letterario, ma da una forma relativamente artificiale dell'inglese, da loro chiamata inglese americano.


R. No, non sono d'accordo. La lingua che si impone è una specie di inglese, di buon inglese, con delle varianti. Nell'aviazione di regola prevale l'americano, nella maggioranza dei restanti casi rimane favorito l'inglese britannico. In Giappone ad esempio l'inglese britannico ha pieno diritto di cittadinanza, il che è strano, se si pensa alle tendenze attuali.


D. 5) Anche se non a tutti serve l'Esperanto, il fatto che alcune persone, quale che ne sia il numero, trovino in esso una certa soddisfazione, è sufficiente a giustificarne l'esistenza.


R. Assolutamente sì. Secondo me è chiaro che la scomparsa dell'Esperanto sarebbe una perdita per coloro che lo usano, ma anche per la civiltà in generale. Questa combinazione di un fatto linguistico e di uno psicologico (nel senso più ampio del termine) è un elemento di grande interesse del mondo moderno, e sarebbe un peccato se avesse a scomparire.


D. 6) Il diritto alla comunicazione è indissolubilmente legato al diritto alla differenza.


R. È detto bene. Ma il vantaggio delle lingue è che la loro pratica porta alla convergenza: quando c'è un contatto, non si verifica divergenza. Prendiamo l'interessante esempio della terminologia ferroviaria. La ferrovia, nata in Inghilterra, si è sviluppata indipendentemente in Inghilterra e negli Stati Uniti, e tutta la terminologia è diversa: “biglietto di andata e ritorno, ferrovia, traversina, locomotiva” etc., perché a quel tempo non c'erano contatti. Con l'aviazione questo fenomeno è finito: la terminologia è totalmente internazionale; i contatti ci sono e quindi bisogna parlare la stessa lingua.


D. Detlev Blanke sottolinea che già ora si osservano, fra il tedesco della Germania Est e quello della Germania Ovest, delle differenze dovute alla mancanza di contatti.


R. Sì, certo: c'era da aspettarselo. Ma sarebbe interessante disporre di uno studio dettagliato del problema. Il fenomeno riguarda ad esempio alcuni tratti grammaticali?


D. 7) Per comunicare veramente, non basta parlare la stessa lingua.


R. Certo, ma il farlo facilita notevolmente le cose. È vero che per capirsi bene bisogna attribuire lo stesso senso alle parole della lingua, ed è evidente che i parlanti del francese, del tedesco o dell'inglese non attribuiscono lo stesso valore alle stesse parole: per comunicare, ci vuole una base comune. Ma questa base comune si ottiene proprio praticando una certa lingua. Non avete l'impressione che la pratica dell'Esperanto crei già adesso, anche se non esiste una nazione esperantista, una base comune che facilita i contatti oltre il semplice uso della stessa lingua? Ma è anche vero che una parola è sempre marcata dalle circostanze in cui la si è imparata nella propria lingua materna.


D. 8) L'ignoranza a proposito dell'Esperanto fa credere che sia una cosa pericolosa. Al contrario, chi lo ha studiato sa che gli esperantisti sono mossi da ideali umanitari che, nelle circostanze attuali, non mettono veramente in pericolo gli Stati.


R. Ma l'Esperanto mette in pericolo la sacralizzazione e la supremazia dello Stato! Non c'è da meravigliarsi se i fascisti gli sono contrari.


D. L'Esperanto: sogno di ieri, lingua di oggi, prospettiva di domani: è possibile interessarsi dell'Esperanto indipendentemente dal suo passato e dal suo futuro? Che significato si può dare all'affermazione che “l'Esperanto ha fallito”?


R. Sogno di ieri? Sì. Lingua di oggi? Sì. Prospettiva di domani? Perché no? Certamente ci si può interessare dell'Esperanto indipendentemente dal suo passato e dal suo futuro: un linguista lo può studiare come realtà non dinamica, anche se io personalmente sentirei il bisogno di osservare cosa diventa e cos'è diventato.

Che senso dare all'affermazione “l'Esperanto ha fallito”? Più precisamente, la sua è una riuscita limitata. Nell'opinione comune, l'Esperanto è marcato come una cosa speciale che deve rispondere a un certo bisogno. Ebbene, questo bisogno non è del tutto soddisfatto. La sensazione che abbiamo per cui nel mondo d'oggi le frontiere perdono d'importanza non può attirare la gente a interessarsi più di prima dell'Esperanto? Però a questo processo si accompagna il contemporaneo stabilirsi di una lingua nazionale, l'inglese, come lingua internazionale. Ritroviamo sempre lo stesso problema. Ma l'Esperanto non ha fallito: in confronto a tutte le altre lingue internazionali ausiliarie, è un successo.


D. Cosa pensa dell'idea di candidare l' Universala Esperanto-Asocio al premio Nobel per la Pace ?


R. Mi parrebbe proprio quel che ci vuole.


D. Sarebbe disposto a proporre l' Universala Esperanto-Asocio come candidato al premio Nobel per la Pace ?


R. Sì, certo! È più che evidente che l'adozione universale dell'Esperanto come lingua internazionale significherebbe pace nel mondo. Proprio questo è il maggiore ostacolo: l'uomo è ancora lontano dall'accettare la pace nel mondo.


D. Il sogno esperantista è altrettanto utopico di quello pacifista?


R. Una certa somiglianza c'è. Personalmente non ho mai incontrato un esperantista che non sarebbe stato pronto ad ogni sacrificio dal punto di vista nazionale per arrivare alla pace.


D. Pensa che si possa difendere l'idea dell'Esperanto con altrettanto ardore di quella pacifista, o ci vede una differenza?


R. La differenza secondo me non è grande. Ovviamente la conservazione della pace nel mondo è una cosa molto più decisiva, che interessa molte più persone della diffusione dell'Esperanto, ma i due ambiti sono legati e vanno nella stessa direzione.


L'immagine è da http://www.inforef.be/projets/jeparledoncjecris/amartinet.htm.


De parolo ĝis faro estas tre malproksime [309], ovvero “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”.





 

Federazione Esperantista Italiana

http://www.esperanto.it

Città di Mazara del Vallo

http://www.comune.mazaradelvallo.tp.it

Altro sito

http://