[82] La lasta strofo
Kuniĝu la fratoj, plektiĝu la manoj,
antaŭen kun pacaj armiloj!
Kristanoj, hebreoj aŭ mahometanoj
ni ĉiuj de Di' estas filoj.
Ni ĉiam memoru pri bon' de l' homaro,
kaj malgraŭ malhelpoj, sen halto kaj staro
al frata la celo ni iru obstine
antaŭen, senfine!
avanti con armi di pace!
Cristiani, ebrei o maomettani
noi tutti siamo figli di Dio.
Ricordiamoci sempre del bene dell’umanità,
e malgrado gli ostacoli, senza soste e stasi
indirizziamoci ostinati al fine fraterno
avanti, senza fine!
Nell’ultima strofa della Preghiera,
quella che abbiamo sottolineato essere stata esclusa dalla lettura il
giorno del Discorso di Boulogne,
forti sono i rimandi alla cultura illuminista. In primis è da notare
l’ammiccamento alla Ringparabel
nel Nathan der Weise (1779: http://it.wikipedia.org/wiki/Nathan_il_saggio)
di G. E. Lessing (la “parabola dell’anello” ripresa dalla famosa
novella del Boccaccio), di cui diamo solo qualche passaggio
particolarmente significativo, in cui si riscontrano immediate analogie.
Innanzitutto la disillusa speranza di Daja al sorriso di Nathan sui suoi sogni:
Vereinigen; - so einen süßen Wahn!
Poi almeno la riflessione di Nathan, rivolta al templare, sul valore e
le circostanze dell’appartenenza:
Mein Volk so sehr Ihr wollt. Wir haben beide
Uns unser Volk nicht auserlesen. Sind
Wir unser Volk? Was heißt denn Volk?
Sind Christ und Jude eher Christ und Jude,
Als Mensch? Ah! Wenn ich einen mehr in Euch
Gefunden hätte, dem es gnügt, ein Mensch
Zu heißen!
Dobbiamo essere amici. – Disprezzate / il mio popolo, se volete. Né voi / né io abbiamo scelto il nostro popolo. / Noi siamo il nostro popolo? Cosa vuol dire popolo? / I cristiani e gli ebrei sono cristiani / o ebrei prima che uomini? Ah, se in voi trovassi / un altro uomo al quale è suffficiente / chiamarsi uomo! (II, 5, 1306-1313)
O ancora la drammatica consapevolezza del templare:
Verliert, auch wenn wir ihn erkennen, darum
Doch seine Macht nicht über uns. – Es sind
Nicht alle frei, die ihrer Ketten spotten.
[...]
Der Aberglauben schlimmster ist, den seinen
Für den erträglichern zu halten ...
La superstizione in cui siamo cresciuti / non perde il suo potere su di noi / solo perché riconosciuta. – Chi deride / le sue catene non sempre è libero. / […] / La peggiore delle superstizioni / è ritenere la propria la più innocua… (IV, 4, 2755-2761).
O ancora, fascinosi sono i rimandi a tutta una produzione poetica di
cui The Mother Lodge di R.
Kipling è esempio fra i più chiari, in cui questa unità nella
differenza è chiaramente esemplificata, da un punto di vista profano,
dalla prima strofa:
An’ Beazeley of the Rail,
An’ Ackman, Commissariat,
An’ Donkin’ o’ the Jail;
An’ Blake, Conductor-Sargent,
Our Master twice was ‘e,
With ‘im that kept the Europe-shop,
Old Framjee Eduljee.
per proseguire, nella seconda, a sottolineare le concordanze fra le
diverse origini confessionali:
An’ Saul the Aden Jew,
An’ Din Mohammed, draughtsman
Of the Survey Office too;
There was Babu Chuckerbutty,
An’ Amir Singh the Sikh,
An’ Castro from the fittin’-sheds,
The Roman Catholick!
il tutto a chiudere nella parola cardine della poesia, brother, intorno alla quale si
sviluppa molta della riflessione zamenhofiana [> 22; 33].
Ed ecco la pagina del Boccaccio, troppo significativamente eloquente
per non essere riportata:
In chiusura un saggio proverbio sulla tolleranza: Vian vivon ĝuu, sed fremdan ne detruu [2558], che possiamo rendere con il nostro “Vivi e lascia vivere”.